L’imbalsamatore.
Ho visto un film, curioso e sgradevole, “L’imbalsamatore” di M. Garrone.
Un ometto di bassa statura, innocuo, quasi invisibile è un imbalsamatore. Svolge il suo lavoro con grande passione e abnegazione. Reperisce animali delle più svariate specie, dalla tigre al topolino di campagna, dall’iguana alla rondine e, nel suo laboratorio, procede all’imbalsamazione. Il laboratorio, un ampio stanzone disordinato e pieno di materiale, è il luogo dove trascorre il suo tempo, qui lima ossa, sventra interiora, dà forma e rifinisce fisionomie e posture, ripristina muscoli all’interno di membra vuote che imbottisce di materiale misto, lavorato con perizia e determinazione.
Fin qui tutto in regola, il film forse un po’ lento, in alcuni passi mi annoiava facendomi interrogare del perché continuavo a vederlo e che cosa tuttavia mi tratteneva a cercare un significato che, pure, s’intuiva avesse. Soprattutto era un senso d’inquetitudine e fastidio che, via via che le immagini scorrevano e la storia prendeva forma, mi coglieva; uno stato di sgradevolezza e volgarità s’imponeva sempre più decisamente e non tanto per la visione di certe immagini di animali morti, squartati, del sangue, degli occhi di vetro che venivano accuratamente apposti nella cavità oculare dell’animale inerme, delle unghia finte, delle pelli stirate, delle ali infilzate dal fil di ferro per poterle modellare così come l’imbalsamatore esigeva per renderle sempre più verisimili.
Il lavoro dell’imbalsamatore procedeva a gonfie vele, affari d’oro, anche loschi, conniventi col sistema mafioso che controlla e distribuisce la droga. L’imbalsamatore, con la stessa perizia e precisione che rivolgeva ai suoi animali, con mosse decise e rapide come di chi scarta un pacco, strappava la camicia del morto, toglieva la cravatta nera e, munito di guanti e mascherina, recideva la sutura raffazonata sull’addome del cadavere ed estraeva sacchettini di polvere bianca, passandoli ad un tipo in doppiopetto, come fanno i chirurghi quando tolgono la cistifellea. In una cosa il suo comportamento mi parve diverso: con gli animali i suoi gesti sembravano più affettivi, mentre sugli uomini morti si abbatteva con prepotenza che richiamava la ferocia, il disprezzo e l’indifferenza, in una parola, con gli uomini era più crudele… e non solo con gli uomini morti che trattava per lavoro, ma anche con gli uomini vivi, soprattutto quelli che amava, che lo interessavano e lo coinvolgevano. L’imbalsamatore faceva passare le sue richieste, anche quelle più discutibili con nochalamce, non che lui si arrabbiasse o si adombrasse per un rifiuto ricevuto, anzi, era sempre disponibile ed….amabile, tanto amabile che alla fine non gli si poteva dire di no.
Ecco che Mario, un giovanottone alto e bello, incontrato in un giardino zoologico, resta affascinato dai racconti dell’imbalsamatore circa il suo lavoro e decide di licenziarsi dal posto di cameriere e diventare l’aiutante dell’ometto.
Tra i due uomini nasce un rapporto che, inizialmente sembra paterno. L’imbalsamatore aiuta Mario, lo stipendia abbondantemente, gli svela tutti i segreti del mestiere, condivide con lui il cibo, il sonno. il sesso.
L’ometto insignificante e potente si innamora del giovanottone e il giovanottone è ben presto……. imbalsamato!
L’aspetto sgradevole e attraente al tempo stesso che calamitava la mia attenzione era proprio questo: l’imbalsamatore non imbalsamava solo gli animali ma anche gli uomini, vivi, giovani, sani, rendendoli morti, secchi, perversi, ambigui, dando loro la forma di sé stesso, come Mario a cui diede la forma che lui voleva avesse, allo stesso modo in cui infilava il ferro nell’ala della rondine e l’affondava giù giù nella carne e poi con le sue mani ne accompagnava la forma calcando, spingendo finchè non era come lui l’aveva pensata.
Il contenuto del film mi ha indotto a chiedermi quanto la funzione dell’analista possa rischiare di diventare come quella dell’imbalsamatore. Ho riflettuto sull’importanza che l’intervento terapeutico, sia sotto forma di interpretazione, di analisi del transfert e, più in generale, di comprensione del paziente, possa rendere l’analista l’imbalsamatore del paziente piuttosto che favorire la conoscenza. In particolare nell’analisi con adolescenti che, per la loro naturale tendenza a stabilire un transfert, per la ricerca di modelli a cui identificarsi e per l’esigenza di alleanze e complicità, come Mario, possono subire la personalità dell’adulto.
Così come è pur vero che ci sono pazienti che imbalsamano il loro analista, o tentano di farlo, e altri che hanno aree imbalsamate dai loro traumi pregressi o, semplicemente, da una condizione genitoriale che ha imbalsamato il loro sé e immobilizzato, come in un fermo immagine, i loro talenti allo scopo inconscio e involontario di produrre aree del tutto simili ad un’aspettativa, (in cui può giocare un ruolo fondante il transgenerazionale) ma privi dell’anima, o potremmo dire aree che non saranno mai vive.
Alla fine della seduta, appena fuori dalla porta dello studio, mi colpisce il comportamento di certi pazienti che imboccano la scala che li porta al piano terra senza curarsi di accendere la luce, sembrano procedere alla cieca noncuranti del buio che li aspetta lungo l’abitacolo della scala, come, simbolicamente abituati a stare nell’oscurità o incapaci di previsione, né avvertono la luminosità quando sono io che mi premuro ad accendere la luce. Altri, incedono nella stanza come trasportati da una tromba d’aria, i loro movimenti e la loro postura ricordano quelli di chi è sospinto da poderose folate di vento e fa fatica a trovare una presa che gli consenta di mantenere l’equilibrio; sono pazienti in cui riscontro delle aree imbalsamate, anche in assenza di quadro significativamente psicopatologico.
Questa condizione storica che dal paziente viene agita sull’analista nella riproposizione antica che si riattualizza nel transfert, può, se non passa attraverso una sana analisi controtransferale, produrre inconsapevolmente una modalità relazionale che è l’esatta copia della modalità relazionale che è, alla fine, ciò di cui il paziente dispone al momento in cui entra in analisi. L’ipotesi è che il paziente agisce nel rapporto con l’analista il solo modo che possiede di essere nel legame con l’intento inconscio di scongelare o vitalizzare aree di sé imbalsamate mentre l’analista, “chiamato” nella relazione, da parte sua, può produrre comportamenti inconsci e involontari atti a ripetere all’infinito la storia da sempre vissuta dal paziente, senza che si verifichi alcuna trasformazione nel paziente, producendo l’immobilismo nella relazione e una sensazione di graduale frustrazione e impoverimento in sé stesso. A volte ho avvertito la sensazione che il paziente mi avesse messo addosso un vestito non mio, di un'altra taglia e di un altro tempo, di una moda diciamo già trascorsa. Indossandolo e tenendolo addosso anche per lungo tempo, alla fine mi sentivo obsoleta e “vecchia”, poco produttiva, spenta. Questa è la condizione che identifico col rischio di essere imbalsamata dal paziente e che aspetti di sé imbalsamati stiano agendo nella relazione, interponendo tra noi l’ antica oggettualità nevrotica. Il rischio è di rimandare al paziente e confermare ciò che lui sa di sé già benissimo e che è l’unico modo con cui gli è stato, in passato, riconosciuto di esistere anche se questo modo non è quello che lo rappresenta né che ha scelto, si può dire che il paziente mette addosso all’analista l’abito che è stato messo a lui, non scelto e che non rappresenta la sua origine.
Può forse essere questo meccanismo già una chance terapeutica inconscia di “spogliarsi” per liberarsi di cose non proprie “appoggiandole” sull’analista che diventa in tal caso luogo ectopico (Siracusano.1986) della deriva esistenziale del paziente. La riproposizione del transfert può significare il primo inconsapevole movimento di tirarsi fuori dalla pelle nevrotica come Pelled’asino che si libera dall’immonda veste che trasfigura la sua effettiva persona-lità; mi chiedo, se, del transfert, possano esistere delle accezioni nuove, che ancora non conosciamo e che ci possano avvicinare ancor più a ciò che è insito nella richiesta terapeutica.
Diverso dall’imbalsamare è il “cunzari” (Siracusano.1986).
“Nella Sicilia orientale, quando i bambini, nei primissimi anni di vita, sono nervosi, irrequeti e malnutriti si dice che sono “scunzati”, cioè sono scomposti o non bene aggiustati. Allora vengono portati da una donna che è capace di “cunzarli”, che li “conza”, che li aggiusta e li ricompone. Questa donna ha le mani che compongono inversamente alla madre che ha scomposto il bambino alla nascita o che non sa ricomporre o aggiustare eventuali disaggiustamenti del proprio bambino. Il conduttore è colui che deve ricomporre, ogni volta, l’individuo che viene col desiderio di nascere, come se le varie parti corporee fossero nate scomposte o la madre non fosse stata capace di comporle o l’individuo non fosse riuscito a tenerle composte di fronte agli insulti esterni.” (“L’esistenza ectopica del gruppo”. Siracusano.1986).
Il “cunzari” comporta un con-cordare, ri-collegare, e’ un atto creativo che comprende l’impegno delle due persone, quella che conza e quella che si fa cunzari, insieme e all’unisono nell’impegno di ri-ordinare ciò che è stato scomposto. La funzione analitica “conza” come le mani affidabili della donna siciliana, e nel cunzari ripristina funzioni, avvia processi conoscitivi e tiene unite aree del sé disgregate, impedite a svilupparsi, a nascere, come le parti corporee scomposte e malnutrite che vengono ricompattate.
Un esempio di questo lo si può apprezzare nel film prodotto per la televisione “Una vita rubata” di Graziano Diana. Il film racconta la storia di Graziella Campagna, una ragazza di 17 anni, impiegata in una lavanderia di un paesino dei peloritani (Saponara) uccisa dalla mafia solo per essere entrata in possesso di un documento d’identità dimenticato da un latitante nella tasca del suo cappotto portato “a lavare”. La trama si sviluppa in un crescendo di indizi che il fratello di Graziella, Piero Campagna, che non si rassegnava alla lentezza omertosa in cui galleggiavano le indagini, raccoglie accuratamente fino a far luce sul fatto criminoso e ottenere la condanna dei mafiosi e dei loro conniventi.
La figura di spicco è, a mio avviso, la madre di Graziella, una donnina umile e non acculturata, di quelle che si possono incontrare qui giù da noi, nella nostra terra siciliana, con la pelle abbronzata e aggrinzita dai segni del tempo e da una vita contadina, donne silenziose, schive, vestite di nero, coi capelli raccolti in misere crocchie, ma dagli occhi “sperti”, vivaci, occhi che custodiscono ciò che osservano, e con le labbra sottili tanto la bocca è abituata a rimanere serrata e parlare sempre con prudenza e mai a sproposito (mia nonna raccomandava sempre “si parra picca” – si deve parlare poco, con moderazione”).
Questo atteggiamento non deve confondersi con un atteggiamento omertoso come potrebbe sembrare, è piuttosto una filosofia di vita laddove è il pensiero più che la parola a guidare i comportamenti, il riflettere sulle cose. La madre siciliana del film è silenziosa non perché ha paura (come gli altri protagonisti della vicenda) ma perché pensa. Chiusa in un dolore dignitoso, apparentemente debole e abbattuta, lei raccoglie nella sua mente ricordi, parole riferite dalla figlia, intuizioni, fa collegamenti. E’ lei che, attraverso il suo lavoro di elaborazione silenziosa, “conza” Piero, il figlio, placando i suoi agiti e indirizzando i suoi passi nell’indagine, stabilendo un filo ideale tra i pensieri suoi e quelli di lui; le sue parole e le sue deduzioni lo aiuteranno a far luce sulla morte della sorella.
Il film sembra contenere due messaggi interessanti, quello manifesto e piuttosto ovvio legato alla storia di mafia e al malcostume che da essa deriva e una più nascosta in cui, alla fine, l’insistenza del ragazzo che non si vuole rassegnare all’omertà dell’ambiente, viene combattuta da tutti, non solo dalle istituzioni ma, alla fine, anche dalla famiglia stessa. Il padre, anziano contadino, si distanzia chiudendosi in un comportamento assente e denegativo rotto solo quando finalmente, tirato fuori il vestito dei giorni di festa, incede nell’aula del tribunale, raggiungendo la moglie, seduta nella panca in prima fila, ritta dentro il suo abito di lutto e i suoi capelli raccolti. Piero sarà accusato anche dal fratello di scombussolare la loro vita e provocare, coi suoi comportamenti, l’emarginazione della famiglia dal consesso del paese.
Vorrei collegare i personaggi dei due film, la “madre siciliana” e l’”imbalsamatore”, come significanti di due modalità di relazione in cui possiamo trovarci quando siamo coi pazienti: “imbalsamare” e “cunzari”.
Cunzari è un ri-governare piuttosto che un governare. Il governare invia ad un’accezione politica, in alcuni casi richiama una condizione autoritaria e asfittica, comporta un organizzare secondo un ordine prestabilito, magari dal codice transgenerazionale che pone in essere stili comportamentali e modalità emotive già collaudate ma non per questo funzionali, nate prima che nasca chi ne sarà il portatore. Ri-governare, invece, contiene una nuance di familiarità, comporta il prendersi cura, l’accudimento nel rispetto dell’oggettualità piuttosto che dell’esigenza narcisistica.
Bisognerebbe chiedersi quanto, nella stanza d’analisi, cunziamo o imbalsamiamo e se questo è vero nel lavoro con gli adulti lo è ancora di più con gli adolescenti proprio per il loro bisogno di investire su un oggetto con cui identificarsi o su cui appoggiarsi . Più facile sembrerebbe, consentitemi il paradosso, procedere all’imbalsamazione laddove il prodotto finale sarà simile a una creatura di belle fattezze e di buona precisione, sì, ma finta e sostanzialmente morta, non vitale. Qualche problema lo darà invece colui che viene cunzato, poiché darà corso al suo essere autentico, alla verità racchiusa nel suo esistente, sarà in grado di affrontare conflitti, soffrirà il dolore, riuscirà a passare attraverso le emozioni, conoscerà la delusione, capirà il senso della morte….e sarà vivo.
Donatella Lisciotto
Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana
Biblio
F.Siracusano - “L’esistenza ectopica del gruppo”,1986.